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Il serpente del desiderio diventa velonoso, se non lo si nutre abbastanza. A snake of June, Shinya T

  • Alessandro Di giuseppe
  • 3 giu 2018
  • Tempo di lettura: 9 min


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Perturbante e complesso, A snake of June, settimo film di Shinya Tsukamoto-prima dell'esordio con Tetsuo (1989), il regista aveva deliziato la televisione giapponese con Denchu Kozou no Boken (Le avvenuture del ragazzo del palo elettrico. 1987), piccolo capolavoro di eccessi, favola da anime giapponese in live action e vero e proprio banco di prova per capire come funzionasse il digitale analogico e l'animazione a passo uno su attori in carne ed ossa-, si divide in tre macroblocchi, in tre visioni distinte: il primo, titolato con il simbolo universale della donna, seguirà il percorso di “rinascinata” e “liberazione” di Rinko; il secondo, il cui simbolo è quello dell'uomo, si concentra completamente su Shigehiko e il terzo, il cui simbolo diventa più complesso: il simbolo della donna e due simboli maschili sovrapposti, forse il più narrativo, il più action e insieme il più melodrammatico dei tre, chiude il film.

Parlare di quest'ora e un quarto scarsa di film-un po' di più della durata minima per andare in sala ed essere distribuito come lungometraggio-, in realtà significa immergersi in una specie di mondo-universo pieno di rimandi e citazioni culturali e cinematografiche. Tsukamoto, uno dei più “occidentali” tra i registi orientali, mischia continuamente le tradizioni del sol levante con il suo gusto cinefilo occidentale: la primissima scena che apre la narrazione, un particolare stretto di una macchina fotografica in attesa che la luce del flash si carichi, sembra riportarci direttamente all'opening scene di Persona (Ingmar Bergman. 1966) con la luce del proiettore, della lanterna magica che si riscalda per creare altri mondi, mentre la stagione delle piogge e il tema di fondo del film-l'idea originaria era quella di girare una specie di film pornografico femminista. Secondo le parole del regista: “(...)nonostante in Giappone la figura della donna ha guadagnato forza nella società, esiste sempre un'oppressione della figura maschile (…) in questo film volevo come liberarle, raccontare di una donna che prende coscienza del suo erotismo femminile ed ho scelto la stagione delle piogge che è a Giugno perché simboleggia la scoperta da parte della donna del suo corpo (...)” (Shinya Tsukamoto, Aprile 2013. Conferenza Stampa al Cineporto di Bari)-sono strettamente ancorati alla realtà territoriale nel quale il cineasta (in questo caso, vista la carriera e il modus operandi dell'autore, sarebbe più opportuno e giusto usare il termine filmmaker) vive.


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In questo senso non siamo molto distanti dal discorso critico e di genere portato avanti da un altro gigante come Sion Sono (forse l'altro grande occidentalista tra gli orientali) che nella sua trilogia sull'alienazione giapponese composta da Suicide Club (2002), Noriko's Dinner Table (2005) e Strange Circus (2005) analizza quelle che sono le alienazioni di un Giappone freddo, cinico, privo di relazioni in cui un misterioso gioco suicida in voga su Internet miete vittime tra i giovanissimi(ricorda qualcosa?), e nell'ultimo Antiporno (2016), si concentra direttamente sulle attrici di film softporn nipponici

Tornando al film, la cinéphilie che caraterizza Tsukamoto si palesa negli stilemi di ripresa e messa in scena utilizzati: per tutto il primo macroblocco, infatti, le inquadrature trasversali reiterate che seguono lo scrosciare della pioggia nei tombini, ricordano la tradizione del noir classico americano, mentre la continua ricerca degli spazi vuoti attorno al volto e alla figura di Rinko, riportano chiaramente alla Nouvelle Vague francese ma non mancano,comunque, i momenti in cui il film strizza l'occhio alle tecniche cinematografiche e da videoclip in voga nei primi anni duemila (il timelaps di una piazza con l'immagine perfettamente a fuoco e in tempo reale del protagonista, simbolo universale della solitudine e dell'estraneità verso un sistema), trasformandole e sporcandole come dimostrano le scene in cui Rinko, seguendo gli ordini dello stalker, entra in un supermercato con una minigonna, senza biancheria intima, e va a comprare un vibratore: la situazione è ai limiti del cliché(mille occhi che la guardano e sembrano tutti scrutarla in modo cattivo), ma il regista preferisce la camera a mano che si muove tremolando e rube le immagini in una sorta di assurda e sporca soggettiva, alle solite panoramiche a schiaffo o al montaggio mitragliato.

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Il secondo macroblocco prende avvio utilizzando gli stilemi classici del cinema americano: il regista inaugura questa porzione di film usando voci fuori campo, particolari stretti, panoramiche lente ed ellissi temporali per farci capire che la madre di Shigeiko, da tempo malata, è morta e che lui non è andato al funerale perché troppo impegnato con il lavoro. Quando l'occhio della macchina da presa inizia a seguirlo, e l'occhio della macchina da presa è quello asettico e spietato dello stalker, lo stile cambia: la messa in scena della sua vita solitaria e indebolita dalla rupofobia (la paura dello sporco), dalla afefobia (paura del contatto fisico) e da un'evidente sessuofobia (questa immagino che l'abbiate capita) ci viene mostrata con una lente tre volte deformata perché vista con gli occhi dello stalker, perché ben presto lo stile si avvicinerà a quello onirico e allucinatorio di David Lynch e perché, alla visione dello stalker, si unisce la gelosia del marito. L'evento narrativo che da il via a questo gorgo di stili è semplice: Rinko chiede aiuto allo stalker e fa trovare a Shigeiko l'intero album di fotografie, negativi compresi, delle immagini che gli hanno rubato. Se alcune delle situazioni mostrate sono abbastanza didascaliche-mi riferisco alla scelta, in realtà funzionale, di far perdere i sensi al personaggio e poi di chiuderlo in un bidone della spazzatura-, questa parte del film è la più onirica. La narrazione si fa frammentata, a flash ed è il momento del film in cui è presente forse la sequenza più famosa girata dal regista: lo strano peep show a cui sono invitati, oltre che a Shigeiko, altri uomini di mezza età vestiti eleganti. La scena si svolge dentro una specie di scantinato, lo spettacolo la fanno due donne. Quello che sembra un spettacolo erotico, però, sembra forzato: quattro mani di uomini guidano le ragazze e, alla fine, entrambe vengono annegate in una sorta di piscina di vetro. Altri elementi di innesto, sono sicuramente quelli relativi al passato del regista: in una sorta di dialogo scontro tra Shigeiko e lo stalker, quest'ultimo sfodera una specie di corazza munita di tentacoli di ferro che utilizza per bloccare e far male all'avversario .


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Il terzo blocco prosegue il tenore frammentato e montato del blocco precedente. Motivo d'ira, questa volta, è la mancata decisione di Rinko di operarsi. Il motivo? Shigeiko, appreso che la moglie avrebbe dovuto amputarsi un seno, ha deciso di non dirle nulla, di lasciare che il cancro-un male silenzioso che inizia a diventare sporco e vomitevole soltanto in stato avanzato-faccia il suo corso. In questo senso il regista inserisce due personaggi secondari, una specie di sottile linea comica del film e traghetta il film, dopo una castissima scena di sesso tra i due, verso la morbosa follia del finale.

Se dal punto di vista della forma cinematografica, quindi, il regista opera tutta una serie di innesti (divertente è notare come l'assurda metamorfosi del personaggio principale di Tetsuo in un assurdo e pericoloso uomo-macchina, derivi proprio dalla mania dello stesso di innestare componenti meccaniche all'interno del proprio corpo), A snake of June è interessante anche e soprattutto per quanto riguarda i suoi personaggi e per quello che rappresentano: Rinko, infatti, oltre che alla dicotomia di cascata-la psicologa che non riesce a star bene-è importante perché rappresenta, da un lato, la colpa del piacere-la masturbazione viene vissuta come un gioco da bambine in cui si sperimenta, ci si traveste, ci si trucca e tutto deve rimanere nelle mura domestiche e i suoi orgasmi ottenuti attraverso il vibratore finiscono in un pianto disperato-, e dall'altro, quando avviene il passaggio, la liberazione-l'assurdo piano per “salvare” il marito dalla sua condizione si svolge negli stessi luoghi della sua liberazione, dalla sua perdita della verginità ma con lei alla guida-, sembra essere costantemente in bilico tra il rivendicare una vita sessuale e l'adattarsi al sentimento del marito. Un personaggio, quindi, che rappresenta davvero una sorta di serpente velenoso di bile e di fiele.

Shiginko, oltre che per la rupofobia, all'interno della narrazione, è importante per quanto riguarda il tema dello sguardo e dell'inibizione: se da un lato, infatti, sembra sempre evitare situazioni scabrose che, in realtà, sono le più naturali del mondo (in questo film sono mostrate in modo addirittura troppo imbarazzate e freudiano: il sesso e la morte), dall'altro il suo piacere è tutto nello sguardo, è tutto asettico. Esplicativa, in questo senso, è la scena in cui Rinko, dopo essersi fatta seguire, si spoglia sotto la pioggia mentre lo stalker la fotografa e Shigeiko la guarda. È solo in questa occasione che Shigeiko riesce ad avere un orgasmo e poi, esattamente come sua moglie, scoppia in lacrime.

I due personaggi, quindi, rappresentano le due anime del sesso: l'esibizionista e il voyeur. Ed è quasi spiazzante come il film, uscito quando internet esisteva ma non era che agli albori, riuscisse a parlare del tema del sesso in differita, virtuale.

Il personaggio dello stalker è una piccola perla per il film: nel contesto della narrazione ci riporta alla mente l'Ospite Misterioso di Teorema (Pier Paolo Pasolini. 1968), nel contesto metacinematografico è una figura importante perché interpretato dal regista stesso. Il personaggio, a causa o per merito di questa necessità/vezzo-Tsukamoto, proprio come Hitchcock, ha dei camei in tutti i suoi film. A differenza del più grande regista americano di tutti i tempi, però, la sua presenza era figlia di quella mentalità da D.I.Y. : non dover pagare il protagonista di un film autroprodotto, permette una post produzione migliore-del regista si tinge di una sfaccettatura importante: sappiamo infatti, dall'apparato paratestuale del film, come è fatto il volto del regista e il suo personaggio-un uomo che guarda, che sta al di fuori dell'azione, che ferma una realtà e che gioca con gli altri personaggi-diventa una specie di alterego naturale dell'occhio, delle mani, della mente che stanno dietro l'occhio della macchina da presa, dietro le quinte, sul set. In questo senso il primo dialogo del film- “perché non ti dai alla fotografia erotica? Potresti guadagnare bene” “Non mi interessa”-potrebbe essere interpretato sia come una specie di ammissione (all'epoca delle riprese, Tsukamoto voleva girare un film porno ma il cancro allo stadio terminale della madre lo fece desistere dall'idea perché: “non potevo scrivere un film che fosse soltanto pornografico: mia madre era ammalata di cancro ed ero diventato padre”) e sia come un elemento squisitamente paratestuale che, nel contempo, ci da il senso di quello che stiamo guardando. Il regista sembra dirci, infatti, che quello che stiamo vedendo è finto, ma che è verosimile. E la verosomiglianza-non sono d'accordo con l'idea di Godard secondo cui “la fotografia è verità, il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo”-è l'unica cosa a cui il cinema può aspirare.

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Colmo di significati, metacinematografico, complesso, una riflessione sul sesso, sul giappone, sul desiderio, sulle stagioni della vita e sulla vita dell'arte.

Un piccolo capolavoro.

Voto: 8

 
 
 

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